Volontariato: una responsabilità (?) civile

Che si tratti di caso o di fortuna non importa, il fatto stesso di essere più o meno casualmente finito a occuparmi di terzo settore e volontariato per un periodo significativamente lungo da farmi comprendere diverse sfaccettature umane e pratiche di tale impegno, può e deve essere considerato dal sottoscritto una vera e propria benedizione.
Per essere esatti, lo definirei un privilegio che la vita – con le sue innumerevoli deviazioni – mi ha riservato.
Altrettanto privilegiata è la posizione di cui ho potuto fare tesoro all’interno di una variegata e stimabile umanità, in qualità di testimone diretto delle imprese che tale universo compie ogni giorno al fine di generare un bene comune inteso come supporto reale al prossimo, senza vincoli, lucro o obbligo alcuno.

Ciò che ho potuto comprendere come prima istanza nella mia avventura di reporter del Terzo Settore è che purtroppo – e sottolineo purtroppo in quanto di grave fatto si tratta – il volontariato tendenzialmente è diventato il sistematico approccio alla necessità e al bisogno laddove lo Stato, gli enti e le istituzioni risultano vacanti.
Un dato sensibile che sottolinea la drammatica questione in termini di abbandono del cittadino da parte delle autorità pubbliche è il seguente: il volontariato, in Italia, lo diamo per scontato

Diamo per scontato il fatto che un’ambulanza ci venga a prendere se c’è urgenza, che gli anziani abbiano compagnia e supporto, che i senzatetto trovino ristoro e un riparo per la notte, che i bambini possano svolgere attività sportive, che le persone affette da disturbi psichiatrici trovino conforto e personale competente, che gli ammalati cronici vengano accompagnati a seguire terapie fondamentali, che le medicine siano consegnate agli indigenti, che i richiedenti asilo vengano introdotti in maniera costruttiva nel mondo del lavoro, che gli studiosi trovino ancora libri su cui poter affinare ricerche, che durante un incendio ci sia un attivo supporto ai vigili del fuoco, che alle vittime di alluvioni venga prestato immediato soccorso, che dopo la devastazione di un terremoto ci siano persone e cani addestrati in grado di toglierci da sotto le macerie, che la conservazione di siti storici, monumentali e archeologici sia garantita nel tempo con o senza fondi pecuniari, che i ragazzi con disabilità fisiche o mentali siano inseriti senza traumi all’interno della società, che gli stessi individui portatori di handicap possano accedere ai servizi di base tramite l’abbattimento di barriere architettoniche, che a coloro che sono affetti dalla sindrome di Down vengano offerte attività atte all’inclusione, che l’ambiente marittimo e costiero venga preservato rispettando il suo fragile equilibrio, che gli animali vengano tutelati e sia possibile concedergli gli stessi diritti degli uomini, che a coloro che hanno fame venga distribuito cibo e acqua, che alle minoranze – qualsiasi esse siano – sia data voce e risonanza in merito alla rivendicazione dei propri diritti, e così via, potremmo andare avanti per pagine e pagine elencando ciò che il sistema nazionale di associazioni proponga ed eroghi grazie al solo e unico contributo volontario delle persone, atto alla cooperazione spontanea tra umani. 

Questo si chiama collaborazione. Un corporativismo nato dalla necessità di sopperire alla latitanza o incapacità o effettiva impossibilità di un apparato pubblico non sempre in grado di poter canalizzare risorse verso la cittadinanza.

E quando diamo per scontato tutto questo ci dimentichiamo quasi sempre di capire da dove arriva l’aiuto per il quale abbiamo teso la mano; pensiamo inconsciamente che sia una cosa pubblica , un ritorno di ciò che abbiamo devoluto in tasse e contributi, un’effettiva conferma che la macchina funzioni; in realtà è soltanto frutto di altre persone fatte proprio come noi, con i nostri stessi problemi e le nostre stesse capacità, le quali però hanno deciso di mettersi a disposizione della comunità per fare comunità. 

Il risultato di questo spirito umano di empatia è quello di costituire dunque realtà attive e proattive che vanno dritte al punto, pronte alla soddisfazione immediata di un bisogno, senza ricevere niente in cambio per questo servizio. Un mutuo soccorso che garantisca diritti, dignità e autodeterminazione alla ricerca di una felicità collettiva sempre più distante e complessa. 

In parole brevi e del tutto incapaci di poter descrivere appieno il senso di vita che permea la quotidiana attività del mondo del volontariato, questo piccolo miracolo dal basso è ciò che più mi ha colpito nel periodo in cui ho potuto vivere e raccontare il mondo del terzo settore. 

Oggi è necessaria una riflessione che ponga la massima attenzione al senso di urgenza che è generato dalla profonda disparità sociale che dilaga nel nostro Paese. Ci sono carenze strutturali e infrastrutturali, umanistiche e sociosanitarie immense che definiscono autentici pericoli. Anche in questo caso le caratteristiche che descrivono il volto di una crisi identitaria globale sarebbero innumerevoli e per ognuna di esse esiste – e qui torniamo alla fortuna – un’associazione di riferimento che va a operare un difficilissimo lavoro laddove le questioni divengono più delicate.

Ma questa fortuna non può durare per sempre. C’è dunque bisogno di rivoluzionare completamente la nostra stessa percezione del volontariato; umana coscienza che si eleva e crea presupposti per la civiltà solo se è reciproco, transitivo e solidale. 

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