Viva Ken Kutaragi // 30 anni di Playstation

Attenzione:
Questo articolo contiene informazioni e linguaggio altamente nerd, ma non quei fighetti contemporanei con le sneakers da Trecento Euro e le magliette delle Marvel che citano Star Wars in modo blasfemo e che confondono Mazinga con Goldrake. No, ci riferiamo ai quarantenni e cinquantenni che all’epoca in cui sono narrati i fatti in oggetto erano giovani disadattati che al disagio dell’esistenza preferivano l’esperienza sensoriale videoludica e incoraggiavano la propria emarginazione con profondo senso di disperazione frammisto a visioni spasmodiche di Akira.

Dapprima fu Toshinden. Fummo investiti da un’ondata di impossibile che si faceva concreta materia. Un videogioco picchiaduro in tre dimensioni, poligonale, con visuale a trecentosessanta gradi, laddove l’uso dell’arma bianca causava ferite permanenti nei personaggi utilizzati. Forse era solo uno scherzo, una burla di chi aveva visto le anteprime a San Diego o Tokyo e portava in Italia notizie ingigantite dall’entusiasmo e dalla brama di vendite. E invece, quel che potemmo assaporare sulle pagine di Super Console, Console Mania e sulla neonata PSM, era pura realtà. Purtroppo, il giudizio è impietoso: Toshinden si rivelò un pastrocchio ingiocabile e di impossibile fruizione per un occidentale, ma l’effetto visivo fu di un impatto colossale, irripetibile e – a tutti gli effetti – irripetuto.
Ciò che contraddistingue l’arrivo, nel 1994, della Sony Playstation, è stato il senso di stupore che esso generò nelle menti e negli occhi di giovani e meno giovani. È noto come nessuna altra console di generazione successiva sia riuscita a ricreare quel sense of wonder che sbaragliò un’intera massa di videogiocatori. Perfino le tanto agognate “Next Gen” del 2023/24, le novità assolute, di “next” hanno solo il nome: manca l’anima e soprattutto manca quel vero e proprio salto in avanti che fu introdotto al tramonto delle console a 16 bit, al cospetto dell’arrivo di quell’oggetto che oltrepassò i confini del “giocattolo” e si trasformò in vero e proprio “entertainment system” a tutto tondo.
I primi titoli che i fortunati adolescenti dell’epoca poterono giocare, furono per l’appunto una nuova frontiera del divertimento; attenzione, non soltanto a livello grafico e interattivo, questo è il dato forse più lampante ma non l’unico elemento di emozione. I giochi della PlayStation erano maturi, potremmo dire senza età, perché furono i primi ad avere una colonna sonora con musica vera, suonata da artisti internazionali e famosi (una parola su tutte: Wipeout, con la colonna sonora house/techno/dub che ancora oggi si può definire senza rivali, con Prodigy, Fluke, Chemical Brothers, Future Sound of London, ecc.) , furono pure i primi a rivelarsi simulazioni sportive senza precedenti (qualcuno ha detto Gran Turismo?) , con autovetture reali, calciatori reali, piloti reali, cestisti reali, giocabili in un ambiente ricreato con una mappatura che all’epoca poteva davvero essere confusa con la realtà. Gli stadi, i circuiti, tutta l’esperienza virtuale era calata in una sorta di verità alternativa che all’occhio dell’autentico nerd rappresentò quella via d’uscita, quell’occasione, che nel tangibile, nel quotidiano, mancava puntualmente all’appello.
Ma sapete, è piuttosto evidente che al geek anni Novanta facesse gola un prodotto del genere; quello che sorprese fu quanto la videoludica travalicò i confini degli appassionati e si impose con prepotenza all’interno di tutte le case, diventando un hobby, una moda, una tendenza di massa e di largo consumo.
A conti fatti, dopo trent’anni, è possibile affermare che l’avvento di Sony PlayStation sia stata un bene per l’uomo? Che sia azzardata come affermazione? Valutiamo soltanto questo: di una lavatrice o di un giradischi, non avremmo alcuna vergogna nell’affermare che siano state creazioni capaci di migliorare la vita quotidiana. Perché non dirlo della Play, allora?
Di sicuro ebbe meno conseguenze negative degli smartphone e dei social…

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